Un piccolo cimitero di Brooklyn

 

Quando hai superato i novant’anni ti accorgi che conosci più persone sepolte nei cimiteri che in circolazione. Cominci a farci il callo, quindi, nel visitare le tombe dei tuoi amici sepolti. Ma quando a venire a mancare è una persona giovane, che aveva ancora molti anni da vivere davanti a se, non riesci ad abituarti al dolore. La lapide in marmo riportava il nome di Constance Maria Ferrari, anche se tutti la chiamavano “Connie”. Era un brillante avvocato, lanciata verso una luminosa carriera, ma ad un certo punto aveva scelto di dedicarsi al pubblico servizio come Procuratore Distrettuale della Contea di New York, ovvero Manhattan ed era stato questo a segnare il suo destino. Connie era morta a 32 anni, vittima di un colpo da arma da fuoco sui gradini di un tribunale, colpita da un infallibile cecchino per ordine di un pericoloso boss della Mafia Russa.[1]

Steve Rogers non poté fare a meno di pensare alla crudeltà del fato, mentre posava il mazzo di fiori sulla sua tomba: lui aveva vissuto una vita pericolosa, quando vestiva i panni del leggendario Capitan America, sopravvivendo a centinaia di battaglie contro nemici dai costumi colorati ed a volte bizzarri. Il lavoro di Connie era meno appariscente, ma a quanto pare non meno pericoloso.

Avevano programmato di sposarsi quella stessa estate in Italia, il paese d’origine dei suoi bisnonni. Connie era eccitata come una bambina all’idea di recarsi nei luoghi di origine della sua famiglia, ma tutti i suoi sogni e le sue speranze erano state infranti da quella maledetta pallottola.La morte è il male più grande, perché recide la speranza” recitava lo scrittore inglese William Hazlitt, e Steve pensava che avesse dannatamente ragione.  Non lo consolava il fatto che l’assassino di Connie fosse stato assicurato alla giustizia.[2]

Nonostante fosse preso da quei pensieri deprimenti, la sentì ugualmente arrivare alle sue spalle.

<Mi stavi seguendo, Sharon?>

Sbagliava o Sharon Carter era lievemente arrossita, come una bambina colta con le dita nella marmellata?

<No Steve, io ... beh la verità è che volevo parlarti e che il tuo segnalatore mostrava che eri qui.>

<Sì, oggi sono venuto a fare visita a tutte le persone care che ho perso recentemente ...> disse amareggiato <Questo era un buon posto per cominciare.>

Lei si avvicinò e vedendo il nome della persona lì sepolta, capì il perché dello stato d’animo di Steve.

<Mi dispiace tanto Steve ...>

<Non dire sciocchezze, Sharon. Tu non l’hai mai potuta soffrire.>

<Beh sì ma... non le avrei mai augurato di morire ...> si sentì mortificata e si interruppe per qualche secondo, poi disse solamente:

<Scusami...>

<No, scusami tu ... non ce l’ho con te. È con me stesso che sono arrabbiato. La realtà è che mi sento in colpa...>

<In colpa? E di cosa? Steve, da quanto mi hai detto, è stata uccisa da un cecchino... non potevi farci nulla.>

<Forse no, ma sai dov’ero quando è stata sconfitta? Tra la Germania e Montecarlo a dar la caccia a quelle spie comuniste redivive e a quel falso Teschio Rosso.[3] Quando sono tornato, c’era già stato il funerale. Avevo giurato di smettere con quella vita, con tutte quelle bugie, e invece...>

<Hai debellato una rete di assassini, Steve. Hai salvato delle vite.>

<Poteva farlo qualcun altro. Tu, Nick ... chiunque. Io dovevo starle vicino, e invece non ero qui. Avevo delle responsabilità verso la mia compagna, invece mi sono fatto nuovamente trascinare in questi maledetti giochi di spie!>

<Sei tanto amareggiato. Dovevi amarla davvero tanto ...>

“Non quanto ho amato te” pensò dentro di se, ed era questo il vero segreto del senso di colpa che provava verso la povera Connie. Si era messo con lei principalmente per cercare di dimenticarsi di Sharon, e ad oggi non era certo di esserci riuscito del tutto.

<Scusami Sharon, ma non ho voglia di compagnia in questo momento. Desidero stare da solo.> disse tirandosi sul il bavero dell’impermeabile. Sharon lo vide allontanarsi, prendendo il sentiero che portava fuori dal cimitero.

 

DOPO LA TEMPESTA

 

Di

Carlo Monni & Carmelo Mobilia

 

 

Per le strade di Manhattan

 

Era un giovane come tanti altri… o almeno era quello che sembrava o voleva sembrare. Ma lui non era normale, la normalità gli era stata strappata in un giorno lontano quasi sessant’anni prima, quando aveva assunto il siero del supersoldato e la sua vita era cambiata per sempre. Era diventato Bucky, il partner di Capitan America e poco importava che non fosse l’originale ma solo il quarto uomo ad indossare quel costume. Era stata una vita eccitante finché era durata, poi tutto era andato a pezzi. Delirio paranoide l’avevano chiamato i medici che l’avevano preso in cura: incapacità di distinguere la realtà dalla fantasia, generata dal siero che gli scorreva nelle vene, lo stesso che gli aveva permesso un recupero rapido dalle torture a cui era stato recentemente sottoposto.[4]

 Aveva preso farmaci, praticato la meditazione, seguito sedute psichiatriche e psicologiche. Dicevano che era guarito e lui voleva disperatamente crederci, ma… e se si fossero sbagliati? Se la follia si fosse solo addormentata nel suo cervello aspettando il momento giusto? Se un giorno avesse perso il controllo e messo in pericolo i suoi amici? Per fortuna che era ritornato Barnes. Lui era sempre freddo e controllato, avrebbe saputo cosa fare se le cose fossero andate storte. In fondo era il Bucky originale mentre lui, Jack Monroe, era solo la pallida copia.

Di certo il ragazzo era rimasto sorpreso, e anche un po’ turbato, dall’eroico sacrificio che il suo doppione era arrivato a fare.[5] Stando a quanto avevano raccontato, quel robot si comportava esattamente come lui...credeva addirittura di essere lui, il vero Jack Monroe... questo voleva dire che anche lui, nelle stesse circostanze, si sarebbe comportato alla stessa modo, che allora, quel coraggio, quell’altruismo, albergava anche in fondo al suo cuore? E a proposito di questioni di cuore... da un po’ di tempo in quello di Jack una persona stava prepotentemente facendosi spazio. Una persona che aveva rischiato la vita per tirarlo fuori da quella situazione infernale. Sì, negli ultimi mesi, Jack e Sharon Carter avevano passato molto tempo insieme, tra una missione e l’altra, e il ragazzo non era riuscito a sottrarsi al fascino che la bella agente bionda emanava ... una donna così forte e sicura di se. Non era certo una donna comune e non era facile rimanerne indifferenti. Ma Sharon era la donna di Steve, il suo mentore e amico ... oppure no? In fondo, Steve aveva deciso di rifarsi una vita simulando la propria scomparsa senza dirle niente ... se avesse voluto che lei ne facesse parte, l’avrebbe messa al corrente del suo progetto, giusto? Da quel che ricordava, Steve anni fa stava con Bernie, quella ragazza ebrea di Brooklyn, di cui si poteva dire tutto tranne che fosse che fosse una tipa eroica. Ma allora, tra quei due era finita oppure no? Era un illuso a chiedersi se c’era una possibilità per lui di conquistare la bella agente Carter?  Aveva bisogno di schiarirsi le idee e non poteva certo farlo alla base e nemmeno nel piccolo appartamento di Manhattan che gli avevano trovato dopo che aveva accettato di lavorare come agente superumano del F.B.S.A. per scontare la pena per i molti reati commessi quando era nella sua fase di vigilante psicotico. Decise allora di fare una passeggiata per le strade della Grande Mela.

Dicono che New York sia stata bonificata, che interi quartieri un tempo pericolosi sono stati di nuovo resi sicuri per la gente per bene. Non è solo propaganda, ma non prendetela troppo sul serio: non saranno più così tanti i posti pericolosi nella Grande Mela, ma esistono ancora e senza accorgersene Jack Monroe era sconfinato in uno di questi.

<Aiuto! Aiuto!>

Il grido d’aiuto veniva da una voce femminile. L’istinto di Jack lo fece agire senza pensare. Girò l’angolo per trovarsi di fronte ad un’anziana signora dalla pelle scura che un giovanotto bianco aveva spinto contro un muro ed ora le stava puntando un coltello alla gola.

Jack non si chiese quali fossero le motivazioni dell’uomo: se fosse un rapinatore o semplicemente un pazzo assassino, decise semplicemente di intervenire in favore di chi era in difficoltà. Corse verso l’uomo e lo strattonò spingendolo lontano dalla sua vittima.

<E tu che vuoi?> lo apostrofò l’uomo <Chi saresti: un buon samaritano?>

<Sì, suppongo che potresti chiamarmi così se ci tieni.> replicò Jack

<Beh, sarai un samaritano sbudellato adesso.>

Jack evitò senza sforzo il fendente vibrato dal suo avversario e mentre questi era sbilanciato dal suo stesso slancio, gli afferrò il polso cominciando a torcerlo.

<Butta il coltello, buttalo ho detto!> gli ordinò mentre aumentava la stretta .

L’uomo cadde in ginocchio gridando. Jack non mollò la presa e l'altro si decise a lasciar cadere la sua arma. Jack continuò a stringere e torcere. Ancora un po’ e gli avrebbe spezzato il polso. Una torsione maggiore e gli avrebbe spezzato anche il braccio. Se lo sarebbe meritato quel bastardo delinquente… lui e tutti quelli come lui si meritavano anche di peggio.

Si fermò di colpo, appena in tempo. Lasciò la presa e contemplò l’uomo piagnucolante a terra. Avrebbe potuto davvero spezzargli il polso ed il braccio, ma non l’aveva fatto e questo era importante. Non era diventato Bucky prima e Nomad poi per infliggere dolore ma per proteggere chi non poteva farlo da solo.

Finché l’avesse ricordato avrebbe potuto farcela.

Rimase nel vicolo fino all’arrivo della Polizia, poi si allontanò prima che potessero interrogarlo: aveva fatto il suo dovere e quello gli bastava.

 

 

Brighton Beach, Brooklyn

 

La chiamano Little Odessa a  causa dell’alto numero di immigrati ucraini, russi e dei paesi ex sovietici in genere che nel corso dei decenni l’hanno scelta come residenza adottiva.  Molti dei residenti sono discendenti di ebrei che lasciarono la patria per sfuggire alle periodiche persecuzioni antisemite: i pogrom. Più di recente, specie dopo il crollo dell’Unione Sovietica, un altro genere di immigrati ha guadagnato notorietà: gli esponenti della Mafia Russa, un fenomeno in declino, dicono alcuni, ma anche un orso ferito ha unghie affilate.

Per Yelena Kostantinova Belova tutto questo era di scarso interesse. Lei era un’immigrata particolare, dopotutto. Era la migliore agente speciale in forza al G.R.U. il servizio segreto delle Forze Armate Russe ed ora era stata “prestata” ad una speciale task force dello S.H.I.E.L.D. guidata da un uomo tanto misterioso quanto carismatico. Le ricordava il Guardiano d’Acciaio ed era un ben strano paragone,

Yelena si era fatta delle domande sul Comandante Steve Rogers, ma era ben consapevole che difficilmente avrebbe avuto risposta.

Cercò di non pensarci mentre passeggiava lungo la via godendosi odori e sapori che le ricordavano la sua lontana terra natia. In questo momento non era la letale Tchornaya Vdova, la Vedova Nera, ma solo una ragazza russa che cercava di godersi un giorno libero. Non badava più di tanto agli sguardi che le gettavano gli uomini al suo passaggio, ma non poté non pensare al fatto che al momento la sua vita sentimentale e sessuale era vicina allo zero. Per un attimo ripensò a quell’affascinante agente britannico, Clive Reston con cui aveva collaborato una volta e con cui aveva condiviso momenti di intimità dopo la missione, momenti piuttosto bollenti a dire il vero.  Non lo aveva più sentito da allora e perché avrebbe dovuto? I legami fissi non erano per quelli come loro, giusto? Improvvisamente le venne in mente un altro uomo. Non capitava certo tutti i giorni di conoscere una leggenda, uno della cui esistenza non si era nemmeno sicuri. A lei era capitato col Soldato d’Inverno, spietato esecutore di omicidi politici negli anni della Guerra Fredda e che sorpresa era stata scoprire che era anche Bucky, il primo partner dell’originale Capitan America.  Due leggende in una ed entrambe da compiangere. James Buchanan Barnes era un uomo fuori dal suo tempo che doveva adattarsi ad un mondo del tutto nuovo. Eppure non era solo la compassione che provava Yelena… anche se non lo avrebbe ammesso facilmente.

 

 

Base dei Vendicatori Segreti.

 

<È... stupefacente, magnifico!> esclamò Bucky Barnes < Sembra vero... è così... caldo, morbido...>

<Sono contento che ti piaccia> rispose Amadeus Cho <L’ho preparato grazie ai dati ricavati dal LMD di Nomad. Sembra in tutto e per tutto un braccio vero, con tanto di pulsazioni e temperatura corporea.>

<Amadeus, non so davvero come ringraziarti! Sembra di avere il mio vero braccio! Non mi sentivo così da... beh non mi ricordo più nemmeno da quanto tempo!> disse sferrando pugni all’aria col suo braccio sinistro <Non vedo l’ora di provarlo in palestra!>

<Ti serve uno sparring?> disse Jack Monroe entrando nel laboratorio <È il minimo che posso fare dopo quanto avete fatto per me tu e gli altri.>

<Jack ... vedo che ti sei ripreso.>

<Merito del siero del supersoldato. È meglio di un integratore alimentare. Certo, hai suoi effetti collaterali... per esempio visioni, paranoie, scatti d’ira ...> disse Jack ironizzando sul suo passato.

< Si ho saputo dei tuoi... trascorsi. E tutto per sostituire me. Non posso non sentirmi colpevole per quanto hai passato ... anche se non mi ricordo molto di quel periodo.>

<Beh ho imparato a mie spese che non era tutto così glorioso come appariva nei cinegiornali ... ma hai fatto grandi cose, Buck. Sei un grande eroe. Hai combattuto dalla parte giusta, salvato vite, e sconfitto i cattivi. Ti basti sapere questo.>

<Di questo non sono tanto sicuro ...>

<Jack ha ragione> confermò il giovane asiatico <È così che sono andate le cose. Te l’ho detto, sei su tutti i libri di storia.>

<Vorrei solo poter ricordare più cose del mio passato ...>

<Senti, rimandiamo la seduta di allenamento. C’è una persona che vorrei presentarti...>

 

 

Uffici della Kronas Inc. Manhattan, New York.

 

Aleksandr Vasilievich Lukin stava guardando fuori dall’ampia vetrata del suo ufficio privato. Viste da lassù le persone sottostanti sembravano tante formiche brulicanti. Si poteva provare un inebriante senso di onnipotenza a seguire quella linea di ragionamento ed era meglio non indugiarvi troppo. Lukin si era appena scostato dalla finestra che nell’ufficio entrò il suo braccio destro Lev Ilich Kuriakin, Leon per gli amici. L’unica persona autorizzata ad entrare nel suo ufficio senza farsi annunciare.

<Ho qui i documenti dell’accordo con la Roxxon, Alek.> disse <Li ho esaminati e mi sembra tutto in ordine.>

<Se lo dici tu, mi fido, Leon. Organizza un incontro col presidente della Roxxon per la prossima settimana ed occupati di tutti i dettagli. Voglio che tutto sia definito prima del nostro ritorno a Mosca. A questo proposito… hai pensato anche al resto?>

<Naturalmente Alek.  Non sto a ripeterti quanto sia azzardato quel che hai in mente, so bene che non cambierai idea, anche se far evadere qualcuno da un centro di detenzione dello S.H.I.E.L.D. non è affatto uno scherzo.>

<Ed hai ragione, amico mio, ma sarei davvero un pessimo leader se lasciassi i miei subordinati nelle mani del nemico. Non fa bene al morale ed io voglio che i miei sottoposti sappiano che mi prenderò cura di loro in qualunque modo.  Li voglio liberi prima del prossimo fine settimana e se davvero non è possibile liberarli…>

Lukin lasciò in sospeso la frase, ma Leon sapeva bene cosa intendesse,

All’improvviso l’uomo d’affari russo cambiò espressione facendo un largo sorriso.

<Cambiamo argomento, Leon. Mi auguro che tu abbia pensato a tutto per la cena di stasera. La vita è troppo breve per non pensare a divertirsi ogni tanto.>

 

 

Da qualche parte in Unione Sovietica, Estate 1954.

 

Il Maggior Generale Vasily Karpov guardò il giovane addormentato dentro una capsula speciale disegnata per mantenerlo in animazione sospesa.

<Cosa devo fare con te, ragazzo?> mormorò tra se.

Quando aveva scoperto che, contrariamente alle sue aspettative, nella fisiologia di Bucky non c’era alcuna traccia del siero del supersoldato che scorreva nelle vene di Capitan America, aveva considerato l’idea di sbarazzarsene puramente e semplicemente, poi aveva riflettuto: avevano investito troppo in tutto il progetto ed era un peccato non poter utilizzare le doti di quel ragazzo che nonostante la giovane età era un combattente formidabile. Gli esperti dei servizi di sicurezza si erano detti certi di potergli fare un totale lavaggio del cervello e rimodellarlo in un perfetto agente al servizio degli interessi sovietici. Non era stato facile: il ragazzo aveva una volontà d ferro ed aveva resistito a lungo prima di piegarsi, ma alla fine aveva dovuto farlo. Era nato così il Soldato d’Inverno, un agente tanto leggendario e temibile che in molti credevano che non esistesse nemmeno, che fosse solo uno spauracchio o una copertura per vari agenti. Solo le alte cariche dello Stato e del Partito sapevano che esisteva davvero oltre, s’intende, la manciata di uomini che sovrintendevano direttamente al progetto e Karpov ne era il direttore, almeno finora.

Si vociferava che anche gli americani avessero un agente simile, ma come per il Soldato d’Inverno, non c’erano prove dirette della sua esistenza… il che, Karpov lo sapeva bene, non significava nulla.

<Cosa devo fare di te?> ripeté pensieroso.

Ucciderlo era fuori questione. Bisognava sottoporlo ad ulteriori sedute di lavaggio del cervello e stare più attenti in futuro. Lui l’aveva detto che era un errore mandarlo contro Capitan America e Bucky. Potevano essere entrambi degli impostori (e se ne era certo per Bucky, visto che aveva nelle sue mani l’originale, Karpov lo sospettava anche del Capitano), ma il solo vederli poteva far scattare qualcosa nel Soldato d’Inverno che ne avrebbe potuto compromettere il condizionamento. E così era stato, infatti. Quell’arrogante del Teschio Rosso[6] aveva dovuto ingoiare un bel po’ di bile e tornare ai suoi bizzarri piani, il Soldato d’Inverno era fuori dalle sue grinfie.

In futuro sarebbe stato meglio non usarlo contro i supereroi americani e magari evitare del tutto di usarlo in missioni sul suolo americano. Erano cose su cui riflettere.

 

 

Sede dei Vendicatori Segreti.

 

Sharon Carter sfogava la sua frustrazione su un sacco da boxe riempiendolo di pugni e calci finché quello non si staccò dal supporto e Sharon rimase a fissarlo inebetita. Come aveva potuto comportarsi così da scema con Steve? Corrergli dietro come una ragazzina. Non era da lei. Forse la vecchia Sharon l’avrebbe fatto, ma lei non era più quella donna, non è vero?

Aveva sentito il bisogno di sfogarsi e si era diretta alla base. L’aveva trovata vuota. A quanto pareva tutti avevano qualcosa da fare altrove, compreso il ragazzino. Tutti a parte lei.

Si era messa la tuta ed aveva cominciato l’allenamento, ma sfiancarsi non era servito a nulla: i cattivi pensieri erano sempre lì. Dette un ultimo calcio al sacco per terra e si diresse alle docce. Pochi minuti dopo con un sobrio abito “civile” indosso usciva per le strade di New York.   Il tempo di comprare un regalino per sua figlia e poi via verso la Virginia… verso casa.

 

 

Altrove.

 

<Sei sicuro che sia lui?> l’uomo parlò con voce sicura abituata a comandare.

<Si signore.> rispose un uomo con indosso un camice da medico  <L’hanno messo in coma farmacologico, per l’eccesso di pillole rosse che ha assunto durante l’ultima missione. Pare abbia messo a ferro e fuoco Bagdad nell’ultima guerra del Golfo. Dicono che Saddam si fosse nascosto in quel bunker proprio per sfuggirgli.>

L’uomo e la donna nascosti in penombra fissavano il soldato sdraiato nel letto, con gli elettrodi attaccati in tutto il corpo: fisico massiccio, statuario, capelli biondi tagliati alla marine, e quell’insolita bandiera USA tatuata sul volto.

<Ma è vero che l’hanno colpito al petto?>[7] chiese ancora, l’uomo, che aveva i capelli biondi ed indossava una comoda tua blu scuro, quasi nera.

<Si signore, un colpo di fucile vicino al cuore. Ma in passato il soggetto ha fatto parte del “Team X”, dove pare gli abbiamo somministrato un composto chimico che gli ha fornito un fattore di guarigione, seppur di basso livello, che ha riparato i tessuti danneggiati.>

<Quanto tempo ti ci vuole per rimetterlo in sesto?>

<Possiamo cominciare il processo anche subito ...>

<Magnifico> rispose l’uomo. <Frank Simpson ... nome in codice “Nuke”. Finalmente ci ritroviamo...>

<Allora è vero che vuoi due avete già lavorato insieme?> chiese la donna.

<Lavorato insieme?> l’uomo chiamato Mike Rogers sogghignò divertito <Ah! Mia cara... io gli ho insegnato tutto quello che sa. In un certo senso potremmo dire che... sono suo padre.>

 

 

Un tranquillo quartiere residenziale nel  Queens.

 

Era una normalissima villetta a due piani come tante. Davanti al cancello erano parcheggiate due auto, segno che c’erano delle visite. Nel piccolo giardino stavano giocando dei bambini di varie età. La più piccola, una bambina di circa tre anni dai capelli scuri si stava facendo spingere sull’altalena da un bambino di poco più grande

Da dove si trovavano i due uomini potevano vedere la villetta senza essere visti.

<Cosa ci facciamo qui?> chiese Bucky Barnes.

<Io ci vengo qualche volta.> si limitò a rispondere Jack Monroe <La maggior parte delle volte non ho il coraggio di avvicinarmi, però…  vengo per vedere lei.> ed indicò la bambina sull’altalena.

<È… è per caso tua figlia?>

Lo sguardo di Jack si fece cupo.

<No, ma è come se lo fosse. Per i suoi  primi mesi di vita sono stato l’unico genitore che ha conosciuto. Io la chiamavo Bucky.>

<Cosa?> esclamò stupito James Buchanan Barnes.

<Già. Ci crederesti ad un vigilante che combatte il crimine perle strade degli Stati Uniti portandosi dietro una neonata? Beh, quello ero io, il che dimostra quanto fossi pazzo all’epoca. Naturalmente alla fine me la presero e la dettero in adozione. Non scelsero una coppia qualunque, però, ma una decisamente adatta ad allevare una bambina chiamata Bucky.>

<Cosa vuoi dire? Non ti seguo.>

<Il padre adottivo della bambina si chiama James Barnes Proctor… James Barnes Proctor Junior per essere esatti.>

<James Barnes… come… come me. Aspetta … tu stai forse dicendo che…>

<La vedi l’anziana signora che sta uscendo adesso? È la bisnonna dei bambini che vedi. Si chiama Rebecca Proctor, ma prima di sposarsi il suo cognome era Barnes.>

La voce di Bucky tremò improvvisamente mentre dalle sue labbra usciva un nome:

<Becca...>

<Già… è tua sorella amico.>

 

 

Lee Academy. Connecticut

 

Dicono che l’abito non fa il monaco. Steve Rogers non ne era sempre così sicuro: a quanto pareva, un paio d’occhiali ed una cravatta su un’immacolata camicia bianca bastavano a non farlo sembrare un uomo d’azione, per quanto il suo fisico non passasse di certo inosservato. Uno degli altri professori gli aveva detto che il motivo per cui il suo corso era sempre così affollato di ragazze non avesse molto a che fare con la passione per l’arte. Steve aveva scosso la testa un po’ imbarazzato e replicato che non riusciva a capire perché un vecchietto come lui avrebbe dovuto attrarre l’attenzione delle adolescenti. Il suo collega aveva replicato:

<A volte, Rogers, ho l’impressione che tu venga da un altro mondo.>

Ripensandoci, non aveva avuto del tutto torto: in fondo lui apparteneva davvero ad un altro mondo, solo che non si trattava di un altro pianeta , ma di un'altra era, a quasi 70 anni nel passato.  Steve aveva compiuto dei veri e propri miracoli di adattamento in tutti gli anni passati dal suo risveglio, ma la sensazione di essere un pesce fuor d’acqua non era passata mai del tutto.

Congedò la classe ignorando certe occhiatine delle ragazze ed altre occhiate meno benevole di qualche ragazzo ed uscì all’aperto camminando per i viali del parco. Jack e Bucky dovevano provare qualcosa di simile, pensò: il primo aveva passato in animazione sospesa quasi tanti anni quanto Steve per poi ritrovarsi in mondo che l’aveva superato e Bucky… non era solo con il mondo moderno che doveva confrontarsi, ma anche con se stesso, non sarebbe stato facile venire a patti con ciò che era diventato. Certi traumi lasciano il segno, Steve ne era consapevole ma non avrebbe abbandonato il suo vecchio amico.

<Professor Rogers…>

A chiamarlo era stata una ragazza di non più di 15 anni, una delle sue allieve.

<Sì, Harris?>

<Ecco… non ho capito bene una cosa che ha detto su Kandinskij e mi chiedevo se…>

Steve rise. Divertito. A volte basta poco per accantonare i cattivi pensieri almeno per un po’

 

 

Queens.

 

<Mia… mia sorella.> le parole uscivano a fatica dalla bocca di Bucky Barnes. I ricordi arrivavano a frammenti, confusi, senza un ordine logico o cronologico. Bucky sentì il bisogno di appoggiarsi ad una parete.

<E quelli… sono… sono…>

<I tuoi pronipoti.> rispose Jack Monroe < Compimenti amico: non dimostri più di 25 ani e sei già prozio.>

<Piantala. Come fai a scherzare su una cosa simile?>

<Lo faccio per non impazzire. Credi che sia stato facile per me essere un uomo fuori dal suo tempo e scoprire che quasi tutti quelli che conoscevo erano morti o sembravano più vecchi di me? Se non altro tua sorella non è invischiata con una cellula neonazista come è capitato alla mia.>[8]

<Non mi stai prendendo in giro, vero?>

<Non ci proverei mai.>

<Non è una coincidenza che tua… che  la bambina sia stata affidata alla famiglia di Becca, vero?>

<No. Quando sono stato arrestato e messo in animazione sospesa lo S.H.I.E.L.D. ha contattato Mrs. Proctor e lei e suo nipote si sono detti felici di prendere “Bucky” con loro. Era il meno che potevano fare per l’uomo che aveva tentato di mantenere viva la tua memoria. Naturalmente questo l’ho saputo dopo.>

<E non sei mai venuto qui?>

<Si una volta… al F.B.S.A. mi hanno detto che a tua sorella avrebbe fatto piacere incontrarmi, e ci ho messo parecchio tempo prima di trovare il coraggio di farlo e poi … beh mettiamola così…  non ho avuto più  il coraggio di ritornare fino ad oggi. Su andiamo.>

<Cosa? Tu sei pazzo. Io… io non posso.>

<E perché no? È la tua famiglia in fondo. Dovresti essere contento di averne una… di non essere solo… come me.>

L’amarezza nella voce di Jack era evidente. Bucky pensò che sapeva bene come si sentiva. In un certo senso erano come fratelli loro due.  Avevano delle colpe da espiare entrambi  e forse non ce l’avrebbero mai fatta.

<Io non posso.> ripeté Bucky poco convinto <Non ce la faccio.>

<Ma come? Tu che hai sbaragliato interi battaglioni nazisti quasi da solo e che le hai suonate perfino al Guardiano d’Acciaio sei spaventato da una vecchia signora?>

<Quello… era diverso… e poi anche tu… tu mi hai portato qui perché speravi che io ti dessi il coraggio di andare fino in fondo.>

<Ok, mi hai scoperto. Andare alla carica contro i cattivi è una bazzecola in confronto a questo… ma dovremmo farlo, non credi?>

<Sai che Steve non sarà affatto contento di questa tua idea?>

<Oh certo… neanche la mia psichiatra ne sarebbe molto soddisfatta.  Ma non sono il tipo che prende troppo sul serio gli avvertimenti. A volto penso di frequentare le sedute solo perché Andrea ha un bel paio di gambe.>

Jack fece una risatina nervosa e poi fece un paio di passi avanti uscendo allo scoperto.

<Tu sei pazzo.> borbottò Bucky, ma lo seguì.

Rebecca Proctor li vide avanzare e percepì immediatamente un’aria di familiarità. Conosceva quei due ragazzi? Alla sua età non sempre la memoria era una buona alleata.

Uno dei due giovani avanzò mentre l’altro rimase indietro, la testa incassata nelle spalle e leggermente voltata.

<Buongiorno Mrs. Proctor.> disse Jack <Sono Jack Monroe si ricorda di me?>.

<Oh cielo!> esclamò Rebecca <Ma certo. Che mi ricordo. Era un pezzo che non tornavi da queste parti Vuoi vedere Julia immagino.>

<Julia… è questo il suo nome adesso, giusto? Non si ricorderà nemmeno di me.>

<Non sottovalutare i bambini. Su entra… e il tuo amico cosa fa, non viene?>

Bucky alzò la testa ed il suo sguardo incrociò quello di Rebecca Barnes Proctor . Per quanto si sforzasse, non riusciva a collegare quella arzilla vecchietta con la sua sorella maggiore. Dire che si sentiva a disagio era un eufemismo.

<Lui è… è il mio amico ...uh, Arthur Chester.> lo presentò Jack. Inventare per Bucky un nome che somigliasse a quello di un presidente americano[9] gli era venuto spontaneo visto che entrambi i loro veri nomi erano stati ispirati da quelli di altri presidenti.

Rebecca fissò  il giovane. Era inquietantemente familiare. Ma  certo… le ricordava… non era impossibile: era morto ed anche se fosse stato vivo avrebbe avuto appena un paio d’anni meno di lei.

<Mettetevi comodi.> disse <Torno subito. Gradite del the?>

<Uh sì, grazie.> borbottò Jack mentre Bucky rimaneva silenzioso.

Qualche minuto dopo mentre  Rebecca era intenta a preparare il the ed ad informare il resto della famiglia sui nuovi arrivati, Jack giocava sul tappeto con la piccola Julia Si vedeva dalla luce che gli brillava negli occhi che quel ragazzo, per quanto ribelle e attaccabrighe, era affezionato alla piccola. Bucky era rimasto nel soggiorno, da solo, imbambolato e rigido come uno stoccafisso.

<E’ vero> pensò <preferirei affrontare un plotone di nazisti piuttosto che stare qui. Ma perché diavolo l’ho seguito?> si mise a curiosare tra i titoli nella libreria del soggiorno, cercando forse di distrarsi e di evadere da quella situazione imbarazzante.

<Eccomi> disse la signora Proctor, arrivando con il vassoio e le tazze fumanti. Servì Jack e la sua pronipote, prima di avvicinarsi a lui.

<Due zollette vanno bene signor ... Chester, ha detto?>

Ma lui non le rispose. Qualcosa aveva catturato completamente la sua attenzione. Era rapito, quasi ipnotizzato.

<Si sente bene?> chiese la donna. Anche Jack si voltò, con un’espressione preoccupata.

<Buc... Arthur, che ti prende? Tutto ok?>

Ma James Buchanan Barnes stava più che bene. Per la prima volta dopo... chissà quanto tempo, si sentì attraversato da una forte emozione, una sensazione di ritrovato calore che gli scaldò il cuore. Porse a Rebecca un libro dalla copertina rossa, in parte consumata.

<Lo conservi ancora ... dopo tutto questo tempo. Tu... me lo leggevi ogni volta che mi ammalavo. “Le avventure di Tom Sawyer” di Mark Twain ... mi ricordo che mi dicevi sempre che ero un bambino disobbediente quanto lui.>

L’espressione della donna era quella di chi, come si dice in questi casi, aveva visto un fantasma.

<Jimmy...> mormorò, poco prima di svenire.

 

 

Cimitero degli Eroi, Arlington, Virginia.

 

 

L’aveva conosciuta durante i giorni bui della Seconda Guerra Mondiale. Il loro era stato un amore “breve ma inteso”, come si dice in questi casi. Come quelli che si vedono nei film. Una passione imprevista che li aveva travolti, sbocciata all’improvviso come un fiore in mezzo al deserto. Margaret “Peggy” Carter, la donna che aveva amato e perso  in quegli anni lontani. Una donna sopravvissuta a quei tempi violenti per cadere pochi mesi prima davanti alla folle vendetta del Teschio Rosso.

Non fu sorpreso di trovare davanti alla sua lapide Sharon, sua nipote, ultima discendente dei Carter. Era stata proprio la straordinaria somiglianza con sua zia Peggy ad attrarre per la prima volta  l’attenzione di Steve. Erano passati solo pochi anni ma sembravano decenni.

<Ciao.> le disse mentre lei si voltava.

<Steve…> mormorò lei <Dovevo aspettarmi di trovarti qui.>

Steve si chinò a deporre un mazzo di fiori davanti alla lapide.

<Ultimamente ci vediamo solo nei cimiteri o sul lavoro.> disse < Non mi piace.>

Sharon rimase silenziosa. Che avrebbe potuto dire?

Steve rimase anche lui in silenzio per un po’, poi fece per andarsene.

<Steve, aspetta…>

<Cosa c’è Sharon?>

<Se non hai niente di meglio da fare, io… beh… che ne diresti di venire da me? Potresti far compagnia a me e Shannon. Volevo portarla ad un Multiplex di Richmond  a vedere “Ralph Spaccatutto” e poi potresti fermarti a cena, se ti va,.>

<Uhm… perché no? Passerò volentieri la giornata con la bambina… anche se non so quanto sarò capace di cavarmela. >

<Bene. Scommetto che Shannon ne sarà felice.>

Mai quanto me, pensa Steve, poi chiede:

<Scusa Sharon, ma… cos’è un multiplex?>

<Steve, sei davvero incorreggibile,>

Non capita spesso di sentire delle risate in un cimitero, ma c’è da scommettere che Peggy Carter ne sarebbe stata felice.

 

 

FINE

 

 

NOTE DEGLI AUTORI

 

 

Finisce così una storia un po’ anomala: nessuna minaccia mondiale o supercriminale da combattere, ma solo uno sguardo alla vita privata dei nostri protagonisti. Nel prossimo episodio torneremo all’azione senza dimenticare che i nostri eroi sono innanzitutto uomini e donne.

Non mancate.

 

 

Carlo & Carmelo



[1] Su Devil MIT #46

[2] Su Devil MIT #50

[3] Su Capitan America MIT #40/43.

[4]Nell’ultimo episodio, naturalmente.

[5] Sempre nell’ultimo episodio.

[6] Albert Malik, il Teschio Rosso degli Anni 50 al servizio dell’U.R.S.S.

[7] Su Daredevil Vol. 1° #233 (Prima edizione italiana su Fantastici Quattro, Star Comics #43).

[8]Negli ultimi numeri della serie Nomad, inediti in Italia.

[9] Per la precisione a Chester Arthur, Presidente dal settembre 1881 al gennaio 1885,